Domenica II di Pasqua “In albis” – “Un incontro che si fa missione” e “beato chi crede senza aver visto”
Gesù l’aveva annunciato nel suo discorso d’addio, dopo l’Ultima Cena: tra poco il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Ora siete tristi, ma vi vedrò e il vostro cuore gioirà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia.
Come i primi discepoli, anche noi, siamo invitati a rivivere la stessa loro gioiosa esperienza: passare dalla tristezza alla gioia pasquale. E’ un cammino impegnativo che domanda un continuo progredire dal pianto, alla paura, dall’esigenza di toccare alla scoperta, al “vedere e credere”.
(Leggiamo tutto il capitolo 20 del Vangelo di Giovanni).
Il primo giorno della settimana è il giorno della resurrezione del Signore, ma è anche quello in cui il Risorto si rende presente in mezzo ai suoi: il giorno dell’intervento decisivo di Dio che, risuscitando Gesù, ha vinto la morte. Gesù si rende presente: rende visibile la realtà della sua presenza: “mostrò le mani …”. Gesù è di nuovo con loro, diventa l’unico punto di riferimento.
Dopo gli incontri al sepolcro con Maria Maddalena, con Pietro e il discepolo che Gesù amava, noi ci soffermiamo nella riflessione sul brano che la liturgia propone per questa domenica: l’apparizione ai discepoli, dove scoppia la gioia pasquale, che subito si fa missione. Con Tommaso infine siamo noi, chiamati nella pienezza della fede, a vivere la beatitudine: “Beati quelli che credono, senza aver visto”. E’ una visione paradossale: insieme segni di passione e di gloria, segni dell’amore vissuto fino all’estremo. Gesù è il vivente, è risorto da morte, ma non cessa di essere il Crocifisso. Il Crocifisso è risorto, ma il Risorto è il Crocifisso. Croce senza Pasqua è cieca, Pasqua senza croce è vuota. E’ il paradosso della nostra fede cristiana. Ogni discepolo è chiamato come Gesù a dare la vita, ad amare sino alla fine. I segni della passione nelle mani e nel costato di Gesù risorto, ci ricorderanno fin dove deve giungere l’amore.
– Un incontro che si fa missione (20,19-23). Assomigliamo tanto a questi discepoli che hanno paura dei giudei, noi pieni di paure nel vivere e soprattutto nel dire la nostra fede.
“Venne Gesù a porte chiuse”. La sera di Pasqua Il Signore entra in quella stanza chiusa, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e si respira paura. Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, inaffidabili, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse del cenacolo: come il Padre ha mandato me anch’io mando voi. Voi come me. E li manda come sono, poca cosa davvero, un gruppetto allo sbando. Per essere abilitati a questa missione, devono essere ricreati, rigenerati: occorreva una nuova creazione per opera dello Spirito Santo. Ora c’è in loro “un di più”: c’è il suo Spirito, il suo respiro, ciò che fa vivere: a coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati. Ecco Gesù, quale Risorto alita, soffia su questa comunità gioiosa, perché credente in Lui, il suo respiro: per vivere Dio ha bisogno di comunicare il suo stesso perdono. Accogliendo la vita del Padre la chiesa è chiamata come il Padre ad abbracciare ogni figlio che ritorna e anche quello che non capisce, a cercare ogni pecora che si perde. Dio è misericordia : “oggi devo fermarmi a casa tua”. Prima missione: donare il perdono, come atto creativo di Dio che riapre il futuro .
Otto giorni dopo Gesù è ancora lì e viene ad incontrare i suoi. L’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare. Li ha inviati per le strade, e li trova ancora lì in quella stanza chiusa. Sta in mezzo a loro: è lì, vivo. Accompagna con delicatezza infinita la loro piccola fede, gestisce l’imperfezione di tutti. Anche per noi, la fede non nasce da una rievocazione, ma da una presenza. Anche a noi non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici. Nei nostri dubbi, ancora ci verrà incontro.
– Beato chi crede senza aver visto (20,24-29)
L’esperienza di Tommaso è un po’ l’esperienza di noi tutti. Tutti abbiamo i nostri dubbi. Nei vangeli non è solo Tommaso a dubitare, ma un po’ tutti: pensiamo agli Undici apostoli e in particolare ai due discepoli di Emmaus. La sua è l’esperienza tipica che hanno vissuto gli apostoli e i discepoli, prima di dire: noi l’abbiamo visto e ne diamo testimonianza.
Tutto avviene ancora (otto giorni dopo) nel giorno del Signore, il “primo giorno”, giorno della pienezza … anticipo del giorno definitivo. Tommaso, di fronte all’annuncio della comunità, vuole l’esperienza diretta: ha bisogno di vedere visibilmente Gesù. Gesù misteriosamente è già presente e si rivolge subito a Tommaso, che Lui stesso aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, ad essere rigoroso e coraggioso, vivo e umano. Non si impone, ma propone: metti qui il tuo dito e guarda le mie mani, tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del credere; non si scandalizza, si ripropone. Che bello se anche noi fossimo formati, come nel cenacolo, più all’approfondimento della fede che all’ubbidienza; più alla ricerca che al consenso! Quante energie e quanta maturità sarebbero liberate! Gesù si espone a Tommaso con tutte le ferite aperte. Offre due mani piagate dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio.
La Croce non è un semplice incidente di percorso da superare con la Pasqua, è il perché, il senso. Metti, tendi, tocca. Il Vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato quel corpo. Che bisogno c’era? Che inganno può nascondere chi è inchiodato al legno per te? Non le ha toccate, lui le ha baciate quelle ferite, divenute feritoie di luce. Mio signore e mio Dio. La fede se non contiene questo aggettivo mio non è vera fede, sarà religione, catechismo, paura. Mio dev’essere il Signore, come dice l’amata del Cantico.
Le parole di Tommaso “Signore mio e Dio mio” sono l’espressione piena della fede personale e comunitaria del credente: di chi ha visto, udito e toccato, di chi riconosce che Gesù, il Signore, lo ha amato sino alla fine (contemplazione delle mani e del costato: segni della passione in Gesù risorto).
Su questa fede ed esperienza apostolica è fondata la nostra fede e la beatitudine. Una beatitudine alla nostra portata: noi che tentiamo di credere, noi apprendisti credenti, non abbiamo visto e non abbiamo toccato mai nulla del corpo assente del Signore. Solo accettando di non vedere, di non toccare, potremmo accostarci alla vera gioia che nasce nel buio lucente di Pasqua.
– Conclusione (20,30-31).
I segni scelti dall’evangelista nel suo Vangelo sono sufficienti per capire chi è Gesù e credere in Lui: vangelo scritto perché “voi” (ciascuno di noi) crediate e abbiate vita. La nostra fede si fonda sulla testimonianza di questi testimoni. Giovanni ci invita a vedere l’intera vicenda di Gesù come “segno”, primo passo verso la fede. Il segno deve essere confrontato con la Parola di Dio: si guarda a Gesù e si ascolta Dio che ci dice che Gesù è il vero Messia, un maestro inviato da Dio. Sono così invitato ad accogliere la sua rivelazione che mi dice che Lui è il Figlio di Dio e che posso invocarlo dicendo: Signore mio e Dio mio.
Oggi tocca a noi accogliere il messaggio del Vangelo e dare la nostra adesione di fede.