Continua il dialogo tra Gesù e i discepoli. Si sviluppa su temi scottanti come quello del matrimonio e della verginità (19,3-12); della presenza dei bambini nella comunità (19,13-15); per poi soffermarsi sul distacco dalle ricchezze (19,16-29), sul senso della chiamata.
Gesù è in movimento dalla Galilea alla Giudea e poi verso Gerusalemme: esprime così la sua decisione di giungere in fretta alla meta, al compimento della sua missione. Non mancano certo i problemi, le difficoltà, l’opposizione dei responsabili della religiosità ebraica. Gesù però ha l’opportunità di insegnare ai discepoli come si vive la fedeltà alla Parola.
La parabola vuole spiegare il mistero del “Regno dei cieli”. La vigna rappresenta Israele: Essere chiamati a lavorare nella vigna, significa essere chiamati a far parte del popolo di Dio, segno della presenza del Regno di Dio sulla terra. La vigna è una delle immagini che Gesù ama di più, al punto che arriva a definire se stesso come vite e noi i tralci, per dire che il progetto di Dio per il mondo, sua vigna, è una vendemmia profumata, un vino di festa, una promessa di felicità. Il racconto ci è proposto in tre scene:
1. A ore diverse, dall’alba fino al tardo pomeriggio, il padrone della vigna esce per ingaggiare lavoratori (1-7). Protagonista è un uomo, un padrone di casa, che agisce dal mattino alla sera, uscendo di casa per andare nella piazza a cercare lavoratori per la sua vigna, com’era abitudine a quei tempi. Li pagherà un denaro, secondo le tariffe del mercato dell’epoca. Esce più volte e a quelli che trova sulla piazza quasi alla fine del giorno chiede ragione del loro starsene senza far niente, ed essi rispondono. “siamo disoccupati”. Il padrone fa molte chiamate, non esclude nessuno, offre lavoro a tutte le ore: esce di casa ben cinque volte. Vuole lui stesso vedere in faccia chi lavora nella sua vigna e vuole stipulare lui stesso i contratti di lavoro.
S’interessa soprattutto di quegli uomini, più ancora della sua vigna, seduti senza far niente: il lavoro è una dignità dell’uomo. Pensa Lui a questi ultimi, preoccupandosi del loro bisogno: non lavorare significa infatti non mangiare. Tutti quelli che erano sulla piazza del mercato sono stati chiamati, e alla sera non ci sono più disoccupati.
2. Alla sera paga i lavoratori. Il padrone inizia dagli ultimi, e dà a tutti la stessa paga. La giustizia di Dio è completamente diversa dalla nostra. Ora l’attenzione si concentra sulla reazione dei primi di fronte all’agire del padrone nel modo di trattare gli ultimi, che ricevono il salario di un’intera giornata, pur avendo lavorato un’ora sola. Ai primi non va giù il comportamento del padrone e glielo dicono: tu non tieni conto che abbiamo più meriti di loro. Non è giusto dare la medesima paga a chi fatica molto e a chi lavora soltanto un’ora. Si lamentano perché sono convinti che lavorare nella vigna del Signore sia una fatica e basta, non una fortuna e una gioia. Non hanno capito nulla del Vangelo di Dio. L’uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza. Meraviglioso questo volto di Dio, che trasgredisce tutte le leggi dell’economia: non un Dio che conta o sottrae, ma un Dio che aggiunge continuamente un di più. Le sue bilance non sono quantitative, ma guardano il nostro bisogno.
Negli operai nasce la rabbia per essere stati trattatati come gli altri, e la loro attesa frustrata li spinge a mormorare. Ai loro occhi, questo non riconoscere i meriti, appare come un’ingiustizia.
3. Il padrone dà ragione del suo agire (13-16).
- Non ha mancato di giustizia: “Si era convenuto per un denaro”.
- “Non mi è lecito disporre come voglio dei miei beni?”. Una vita retta solo dalla giustizia umana non risolve tutto, e, soprattutto, non unisce le persone, ma le separa. Bisogna unire alla giustizia, l’amore e la generosità.
- “Non è forse cattivo il tuo occhio, perché io sono buono?”.
La felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l’operaio dell’ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici, che conta le sue azioni per poter enumerare i suoi meriti e ora attendere la ricompensa adeguata, non comprenderò mai i pensieri di Dio, i suoi modi di agire, e non camminerò per le sue vie. Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni! La parabola ci invita a non calcolare i nostri meriti, ma a contare sulla bontà di Dio. Mi invita a fare festa con il mio fratello: allora ci sentiremo entrambi più ricchi. Dio non si merita, si accoglie.
La parabola ci invita a conquistare lo sguardo di Dio. Ognuno di noi è chiamato a interrogarsi.
Quale vantaggio c’è allora, ad essere operai della prima ora?. Solo un supplemento di fatica? Il vantaggio è quello di aver dato di più alla vita, di aver fatto fruttificare di più la terra, di aver reso più bella la vigna del mondo.
Al Signore che ci interroga : ti dispiace che io sia buono? Rispondiamo: No, Signore, non mi dispiace, perché sono io l’ultimo bracciante e tutto è dono. Non mi dispiace perché so che verrai a cercarmi ancora, anche quando si sarà fatto tardi.
Ma cosa vuol dire oggi per noi essere chiamati a lavorare nella vigna? Ascoltiamo Papa Francesco: “Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza, è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare, spero che ci muova la paura di chiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “voi stessi date loro da mangiare”.